domenica 23 gennaio 2022

Giuseppe Bertelè, Gli orti


Giuseppe Bertelè, prolifico e attivissimo autore lodigiano (vive e lavora da sempre a Lodivecchio, il suo ultimo romanzo è il toccante Born In Laus Pompeia, Linee Infinite, 2021) ha dedicato agli orti del Pellicano uno speciale racconto che si può leggere direttamente on line, qui di seguito, o scaricare gratuitamente qui.


* * *

Sento ancora la voce della zia Domenica che ci sgrida.

“Andate a giocare un po’ più in là!”

“Eh… ma di là c’è il sole e poi non si sente il profumo”.

“Fa niente, qui fate polvere e c’è la roba da mangiare, via, via!”

Sbuffiamo tutti allo stesso modo e allo stesso modo ci lamentiamo brontolando mentre a rallentatore e di malavoglia ce ne andiamo con le nostre biciclettine. Il nostro era un cortile bello grande e lungo, delimitato da un lato dal caseggiato, una fila di appartamenti su due piani, e dall’altro dai garage dietro i quali iniziavano i campi dove serpeggiava una bella roggia costeggiata da alte piante di platani, roveri, spinose robinie e pioppi. 

Tra la roggia e i garage c’era una larga striscia di terreno che i capifamiglia, residenti in quelle case, avevano trasformato in orti. Ognuno di loro si era impegnato a ripulire e bonificare un tratto di quell’appezzamento incolto per coltivarci verdura e frutta. Era fantastico quando a primavera quegli orti iniziavano a produrre, perché le nostre mamme si organizzavano, sistemando una fila di tavoli nel tratto ombreggiato del cortile e li coprivano con tovaglie candide sulle quali posavano i taglieri di legno, i loro coltelli e canovacci pieni di ortaggi lavati. 

All’angolo di un tavolo veniva installato il tritaverdure in ghisa a manovella. Uno solo: lo avevano acquistato insieme e tutte insieme si mettevano al lavoro e, aiutandosi a vicenda, preparavano le misture adatte per i soffritti, per i minestroni o per le giardiniere. Grazie all’abbondanza di acqua della vicina roggia, gli orti rendevano generosamente e dato che nessuna famiglia del cortile era in possesso di un congelatore ma solo di un piccolo frigorifero, i prodotti freschi andavano lavorati per durare fino all’inverno. 

“… ma piango l’amore di un’unica donna, che non ho, forse più… Accendilo tu questo sole…”  

Ricordo ancora la voce di Gianni Morandi che cantava il suo ultimo successo, la sorella di Vittorio stava col suo mangiadischi sulle ginocchia seduta con altre ragazze e ragazzi sotto la pergola. Loro facevano già le medie e invece di giocare restavano all’ombra a chiacchierare e ad ascoltare canzoni. 

Anche noi piccoli, sentendo continuamente quelle canzoni, le avevamo imparate a memoria e le cantavamo a squarciagola sfrecciando con le nostre bici sulla ghiaia del cortile. 

“Mamma ho fame…” 

Frenavo sui sassi alzando un po’ di polvere, lei mi allungava una grossa gamba di sedano assestandomi uno scappellotto. 

“Non fare polvere, fila”. 

Me ne andavo felice sgranocchiando quella saporosa e succosa verdura, senza badare alla sberla ricevuta sul coppino. I miei amici vedendomi masticare, senza accordarsi si dirigevano in chiassosa processione verso le rispettive madri, questuando la loro parte di ortaggi. Quella era una scena che si ripeteva spesso, perché eravamo stimolati continuamente dalla fragranza di quelle verdure tritate; l’insieme di carote, sedano, cipolle, prezzemolo, basilico, peperoni e aglio era irresistibile, non so se i bei ricordi accentuano la bellezza di ciò che si è vissuto ma oggi non riesco più a sentire quei profumi e quei sapori e di certo, non possiamo ritrovarli nei prodotti acquistati ai reparti di ortofrutta della grande distribuzione.

“Hai ragione, ma qui caro mio abbiamo un orto fantastico e ti garantisco che le verdure che produciamo sono all’altezza degli aromi e del gusto che ricordi.”

Il mio amico Peppo è orgoglioso di quello che ha creato e di quello che con i suoi collaboratori riesce a portare avanti. 

Un campo dedicato alla coltivazione degli ortaggi, un frutteto fantastico dal quale arriva il profumo delle pesche mature e poi una recinzione dove razzola un’infinità di galline. 

Proprio mentre stiamo conversando, dal pollaio esce un uomo con un cappellaccio di paglia ed un cesto di vimini pieno di uova. 

Daniele, seguendo il mio sguardo, interviene con un’espressione orgogliosa tra la barba.

“Oh… abbiamo trecento galline qui, allevate a granaglie ma anche con la verdura e la frutta che non riusciamo a vendere, le uova sono buonissime, dopo magari te ne diamo qualcuna da portare a casa, poi mi saprai dire”.

Ma ci credo e comunque orti e pollai vanno spesso insieme perché anche mio padre nell’orto aveva avviato un piccolo allevamento e le uova erano davvero buone. Se mi capitava di essere lì quando una gallina cantava, andavo a prendere l’uovo e lo bevevo ancora caldo. Sorrido al pensiero di un ricordo e lo racconto: “Pensa che il mio papà aveva piantato un chiodino nella pianta di prugne vicina al pollaio, gli aveva tranciato la capocchia così quando io e i miei fratelli volevamo ciucciarci un ovetto fresco, usavamo quello spuntone per bucarlo sopra e sotto senza rischiare di romperlo. Dopo qualche tempo aveva preso anche la ruggine ma…”

“Scommetto che prima di usarlo, ogni volta lo disinfettavate, no?” commenta Marco ridendo. 

“Figurati, avevamo degli anticorpi grossi come angurie…” 

Tutti ridiamo, consapevoli di come in quel periodo l’igiene non fosse una consuetudine. Uova, verdure e frutta, non pensavo che parlarne mi avrebbe riportato a galla tanti bei ricordi e comunque, quello di mangiare verdure fresche e frutta dalle piante era un’abitudine che avevamo tutti noi bambini. Eravamo come le formiche: quando ci prendeva la golosità entravamo in un orto scavalcando le basse recinzioni e facevamo incetta di pomodori maturi. Che gusto avevano! Li addentavamo ed erano caldi di sole, il succo ci colava sulle mani e giù dal mento, inzaccherandoci la maglietta, e poi le carote, pulite alla meglio nella stessa magliettina. Se sentivo lo scricchiolare tra i denti per via dei rimasugli di terra, sputavo, ripassavo l’avanzo di carota sui pantaloncini e via un altro morso. A me piacevano anche i piselli crudi, teneri e dolcissimi: schiacciavo il baccello che si apriva con uno scrocchio e contavo quanti piselli conteneva poi col pollice li staccavo facendoli cadere direttamente in bocca. In quei piccoli paradisi trovavamo anche uva americana, susine, ciliegie, pesche, insomma tutto quello che mani sapienti sapevano far nascere dalla terra.  

“Porco cane, ne parli con una tale nostalgica gioia che ti brillano gli occhi, è una cosa che ti piaceva eh?”

Siamo seduti sotto la veranda, davanti alla casa di Peppo, proprio dentro la comunità e Marco, versandomi un bicchiere di vino, mi pone quella domanda con un sorriso aperto, divertito, felice lui stesso del fatto che io sia così soddisfatto nel ricordare quei momenti. Anche Paolo, che si sta dedicando seriamente a tagliare fetta di salame, alza lo sguardo e offre la sua opinione.

“Non è una fortuna che hanno avuto tutti, quella di avere passato un’infanzia felice.” 

E senza aspettarsi una risposta si ributta sul salame. In effetti è così e, anche se mi lamentavo quando mio papà al mattino presto mi portava a strappare l’erba che cresceva tra le verdure, adesso, è una cosa che ricordo con piacere. 

Alle sette il sole era spuntato da poco, la verdura e la frutta erano umide e fresche di rugiada. Raccoglievo una pesca bianca direttamente dal ramo e l’addentavo: era croccante, dolce e frizzante, poi mi accucciavo e cominciavo a estirpare le erbacce, che poi buttavo nel pollaio dove le galline accorrevano a beccare. Sapete cosa mi metteva di buon umore? Quando sfioravo il basilico: il suo profumo si espandeva ovunque ed essendo un bambino con le fantasie da bambino, mi ero convinto che gli uccellini, grati per quel buon odore cinguettassero più forte, quasi a ringraziarmi, e allora ci ripassavo sopra la mano. 

“Guarda papà faccio sentire il profumo agli uccellini e loro mi ringraziano… vero? Vero papà?” 

Lui smetteva per un attimo di canticchiare, sollevava il volto rigato di sudore e mi rispondeva sorridendo: “Certo che lo fanno, ormai ti conoscono e ti ringraziano. Dai, che abbiamo quasi finito…” 

E mi indicava alcuni ciuffi d’erba che mi erano sfuggiti. Quando poteva ritenersi soddisfatto mi diceva di prendere in mano la canna dell’acqua, lui andava ad aprire il rubinetto e io finalmente potevo sbizzarrirmi come e quanto volevo: bagnavo tra i solchi di fagioli, bagnavo le piantine di ravanelli e di carote, bagnavo fagioli, cornette, piselli e pomodori che si arrampicavano lungo i loro sostegni spruzzandoli dall’alto in basso e mi bagnavo io sollevando il tubo verso il cielo ridendo divertito e bagnavo anche il papà che stava raccogliendo gli ortaggi da portare a casa e mi sgridava senza troppa convinzione, perché la calura iniziava a farsi sentire e quei brevi spruzzi di pioggia artificiale erano piacevoli”.

“Vuoi un pezzo di formaggio?” 

Peppo mi fa la domanda mentre già me lo sta porgendo, sicuro che non avrei rifiutato, intanto Daniele sta trafficando col cavatappi per aprire un’altra bottiglia di vino. 

Marco esce dalla cucina e posa una grossa bacinella piena di verdure fresche. Prendo un cetriolo e inizio a sbucciarlo. 

“Questi cetrioli sono veramente buoni, dolci e croccanti, e mi piace abbinarli al formaggio”. 

Mangiamo e beviamo deliziandoci dell’abbinamento di questi sapori, ma intanto un pensiero mi si forma nella testa. È un lampo, un istante che lascia delle tracce sparse, tracce che vale la pena elaborare perché mi chiedo se la bontà di questi cibi non sia dettata dalla situazione: la campagna coltivata, la bella compagnia e la buona conversazione. Forse, penso, quando siamo felici di vivere delle belle emozioni, siamo maggiormente predisposti e più attenti nel degustare ciò di cui ci nutriamo, oppure è il contrario? Cioè la bontà di quello che mangiamo ci aiuta a sentirci bene con una compagnia gradevole? Se rivivo i ricordi di quel cortile, ho la consapevolezza di aver vissuto spensieratamente, senza alcun tipo di preoccupazione per cui, il fatto che tutto sembrasse buono e profumato all’ennesima potenza può essere imputato a quella situazione… Il profumo di peperone mi sorprende con un sorriso sulle labbra. Ritorno al presente visualizzando il volto rubizzo di Paolo che mi fissa ridacchiando.

“Ti sei perso tra i filari di pomodori del tuo papà?”

“Eh… quasi, a dire il vero stavo elaborando un pensiero che comprendeva quei tempi”.

Espongo a tutti quello che un attimo prima mi è passato per la testa e, naturalmente, sull’argomento ognuno ha una propria teoria, a partire da Daniele che la espone prendendo una fetta di pane. 

“Ti dirò che essendo vissuto a Milano, io questi profumi o sapori che vi hanno lasciato tutti questi meravigliosi ricordi, io, non li ho mica sperimentati sapete… Toh! Al massimo ricordo la minestra di riso con la curada, che poi è il polmone, me la faceva mia nonna e alla fine ci metteva una bella manciata di prezzemolo fresco tritato… Ecco quello è un profumo e un sapore che ricordo bene perché mi piaceva da matti, ma di cose come le descrivete voi io non ne ricordo. Però adesso qui, sotto questa veranda, con tutte queste cose buone, mentre ci scambiamo delle chiacchiere, ecco, adesso riesco ad apprezzare, anzi, godo veramente della situazione, cosa che non credo potrei provare se fossi in un ristorante o in un bar. Per cui credo che sia quello che ci sta attorno a stimolarci e se quello che vedo è bello, profumato, colorato, allora trovo che mi fa stare bene e se sto bene apprezzo ancora di più la bella compagnia”.

Prima di bere il caffè ci facciamo una passeggiata nell’orto della comunità. È vasto ma tutto risulta essere curato con amorevole dedizione, i sentieri tra le prose sono puliti e in mezzo agli ortaggi non c’è traccia di erbacce infestanti. Gli odori che esalano i frutti di quelle piantine sortisce un effetto corroborante. Guardando tanta perfezione ci si potrebbe illudere che quello sia un lavoro semplice, ma l’orto richiede dedizione, sudore e passione, l’orto richiede competenza e che gli si dedichi del tempo, mio padre ci passava delle ore al mattino e alla sera dopo il lavoro tra punture di zanzare e moscerini e invece di esserne infastidito, sembrava trarne appagamento. Assorto nei miei pensieri quasi non mi rendo conto di aver camminato con i miei amici fino alla veranda. Ci sediamo per il caffè e loro mi fissano, compiaciuti per ciò che mi hanno mostrato. A rompere il silenzio è Marco: “Allora, cosa ne pensi?” 

    Sorrido a tutti, grato di avermi mostrato una cosa che mi ha scatenato mille piacevoli ricordi. 

“Credo che la dedizione che si mette nel fare bene una cosa, alla fine in qualche modo ripaghi dalle fatiche e piantare dei semi, curandone la crescita fino a vederne nascere i frutti sia una cosa che dà soddisfazione. Dovremmo portarci regolarmente i bambini negli orti, fargli piantare dei semi sporcandosi le mani con la terra e poi fargli raccogliere i frutti. Sarebbe un bel metodo per fornire loro un nutrimento emozionale ricco di colori, profumi e sapori che si porterebbero dentro per tutta la vita”.

    Mi appoggio allo schienale della sedia e bevo un sorso di caffè… Mi sembra il più buono che abbia mai assaggiato.