Partiamo con un bilancio sintetico di trent’anni di comunità.
Ecco, fin dall’inizio, non mi vedo come quello che, praticamente, ha lanciato, pensato, voluto tutto da solo. Mi vedo sempre insieme ad altre persone, soprattutto ad amici o gente che mi era vicina e condivideva un po’ i valori e gli ideali in cui ovviamente credevo, e credo ancora oggi, dalla condivisione alla fratellanza, dal servizio alla solidarietà. Per cui è così che praticamente siamo arrivati al Pellicano, che è stata una sfida, una scommessa molto pratica, in quanto per partire con l’acquisizione della struttura di Monte Oliveto ci volevano circa trecento milioni di lire che non avevamo e che non avevo. Ma ci siamo riusciti.
Come è stato possibile, nel dettaglio?
Dobbiamo fare un passo indietro. Questa comunità era stata aperta nel 1982, da don Leandro Rossi, all’inizio di quella che poi sarebbe diventata la rete di Famiglia Nuova. Io sono arrivato per scelta, con la dispensa da prete, per cui praticamente avevo dovuto lasciare la parrocchia ed ero venuto a vivere qui in comunità, a Monte Oliveto, già nel 1984. Non c’erano ancora le casette prefabbricate che poi siamo andati a prendere in Friuli dopo il terremoto, e abbiamo portato qui e ci sono servite per poter pian piano ristrutturare tutta la comunità. Quando sono arrivato dormivo in una stanza dove c’erano dei salami appesi a stagionare. Una situazione direi pionieristica e quindi c’è questo aspetto all’inizio della comunità che tra l’altro era un po' una scommessa. Una scommessa perché ero di fronte all'opportunità di avere un comunità mia, e mia nel senso di aver trovato degli aspetti di diversità all’interno di Famiglia Nuova. Ho sempre portato avanti il discorso del reinserimento delle persone che ospitavamo, cercando di superare un programma comunitario fine a se stesso o che non aveva sbocchi. All’inizio avevamo le stalle, gli animali e tutti i lavori agricoli però praticamente eravamo sempre aperti a trovare una soluzione per il reinserimento nella società. Un programma che a quel tempo era circa di due anni in modo tale che poi le persone potevano sistemarsi attorno alla comunità, tenendola come punto di riferimento. Tutto questo è stato possibile realizzarlo perché delle persone hanno creduto nei nostri valori e negli ideali e soprattutto hanno partecipato concretamente. Ecco, praticamente abbiamo acquisito la comunità versando 300 milioni a Famiglia Nuova che poi li ha subito reinvestiti in un’altra struttura che c’è ancora tutt’oggi sul piacentino, ad Arcello, perché praticamente don Leandro non accettava di poter diminuire il numero delle strutture che aveva aperto. Noi siamo riusciti ad averli in prestito da una banca con la garanzia di persone che ci hanno seguito e così abbiamo potuto avviare il tutto. Ancora prima, ero nella situazione di restare in affitto perché da solo non avevo alcuna possibilità, mentre invece tutti insieme abbiamo raggiunto questo obbiettivo iniziale per poter gestire la nostra comunità e da lì siamo partiti. Un’avventura che è stata una scommessa, ma siamo stati fortunati perché ben presto siamo diventati una comunità riconosciuta e col tempo siamo riusciti a svilupparci da quello che c’era, siamo riusciti a pagare il debito con la banca e a ristrutturare la prima parte della comunità, perché come dicevamo all’inizio ci lasciavamo alle spalle momenti pionieristici dove, per esempio, avevamo praticamente uno scaldabagno che andava a legna. Per farlo funzionare, bruciavamo le traversine del treno che acquistavamo alla stazione di Lodi: una traversina costava appena mille lire ma erano catramate, e generavano una puzza tremenda. Questo però ci ha permesso piano piano di organizzarci e di avere il minimo necessario per poter ospitare le persone che a quel tempo erano una dozzina.
Oggi sono più del doppio.
Sì, siamo arrivati a 27 posti accreditati e per far fronte alle richieste avevamo preso in affitto decennale una casa, che poi abbiamo in parte ristrutturato vicino alla comunità perché abbiamo insistito nell’idea del reinserimento. All’epoca ospitavamo soprattutto eroinomani e cocainomani, gli alcolisti non erano considerati anche se con noi ne avevamo già uno, il famoso Renzo, che era invalido sulla carrozzella, ma sapeva rendersi utile mungendo l’unica vacca che avevamo, la Carolina, che ci dava il latte. Era uno degli aspetti nella nostra autonomia: per diversi anni abbiamo cercato di ridurre il più possibile i costi allevando maiali e pollame o coltivando l’orto. Anch’io a quell’epoca ero riuscito ad andare in pensione ed ero qui a tempo pieno, cercando di contribuire alla nostra gestione. Nel periodo con Famiglia Nuova, dal 1984 al 1991, invece lavoravo per il comune di Lodi e la mia è stata una scelta di volontariato pieno già ai tempi di don Leandro. Mi ricordo che con mia moglie ci siamo sposati nel 1985 e quando ci siamo trasferiti qui mandavamo 700 mila lire al mese a Famiglia Nuova, dato che ci sentivamo di partecipare alle spese, anche se don Leandro non ne voleva sapere.
La storia della comunità è una storia di enorme generosità.
Senza dubbio. Don Leandro alla fine è stato grande, perché ci è venuto incontro anche quando poi, dopo aver acquisito la comunità, abbiamo deciso, io e mia moglie, che a quel tempo avevamo già tre figli, con il quarto in arrivo, di stabilirci lì. Non ci stavamo più nel prefabbricato che eravamo andati a prendere nel 1985, sempre in Friuli, e allora con don Leandro, quando abbiamo acquisito tutta Monte Oliveto, abbiamo deciso di costruire la nostra casa dentro la comunità. C’era l’ipotesi di sistemarci all’esterno, però mia moglie aveva capito che se avessimo deciso di prendere una casa in paese, fuori dalla comunità, non mi avrebbe visto più. Per cui è stata una scelta che ci ha semplificato la vita, anche perché condividevamo l’ideale di pensare alla comunità come una famiglia allargata.
Questa è una costante nella storia del Pellicano.
Sì, perché alle spalle c’è un’esperienza: ero ancora prete a Codogno, e con alcuni amici di San Donà di Piave per un po’ di anni abbiamo portato avanti degli incontri mensili che facevamo a Vicenza perché eravamo intenzionati a realizzare una comunità di vita. Era uno dei miei sogni, che ho inseguito a lungo e alla fine non è stata una comunità di vita ma è stata una comunità di recupero, quando ho accettato la proposta di don Leandro che aveva bisogno qui, a Monte Oliveto. Poi ho scelto di vivere dentro la comunità ma ho sempre mantenuto questo ideale di una comunità aperta, di una “famiglia allargata”. Nel corso di questi anni mi sono trovato ad accettare l’evoluzione e, oggi come oggi, non parlerei più comunità famigliare dato che agli utenti non interessa la condivisione di un ideale. Quello di essere riusciti ad accettare di entrare in un’ottica professionale con psicologi e operatori è stato un passo necessario, per cui la comunità è una realtà dove noi cerchiamo di aiutare queste persone che nella vita si sono trovate in difficoltà e offriamo la possibilità di un cambiamento, però nello stesso tempo cerchiamo di trasmettere altri valori, soprattutto con gli amici e i volontari che via via si sono affiancati alla comunità. Ecco, per cui vedrei la nostra comunità come una doppia realtà: da una parte il lavoro di recupero con programmi personalizzati, e poi le altre iniziative. Prima di tutto, la realizzazione, ormai dieci anni fa, della social housing che ci ha permesso di continuare con l’apertura alle situazioni di disagio, anche temporanee. Si tratta di un’altra struttura all'interno della comunità, che abbiamo realizzato con un investimento notevole che tra l’altro proprio quest’anno termineremo di pagare. L’accoglienza garantita dalla social housing è una manifestazione di apertura del territorio e nella stessa direzione si è aggiunta da qualche anno la valorizzazione della terra, con l’esperienza degli orti del Pellicano. Come dicevamo, agli inizi pionieristici della comunità, il lavoro agricolo garantiva la sussistenza, ma poi verso l’inizio del nuovo secolo tutte quelle attività sono state abbandonate. Ma poi, avendo a disposizione circa due ettari di terreno, abbiamo deciso di valorizzarlo e, con l’aiuto dei volontari, abbiamo cominciato gli orti del Pellicano, una realtà che si è evoluta in pochissimo tempo: accanto alla coltivazione di ortaggi, abbiamo aggiunto l’apicoltura, l’allevamento di galline e la realizzazione delle composte. Per cui oggi, dopo trent’anni, Il Pellicano è una realtà abbastanza composita però sempre votata a essere d’aiuto alle persone che sono qui e nello stesso tempo si è aperta al territorio nel comunicare i valori in cui crediamo e per trasmettere un messaggio di speranza.
Hai già risposto a tutte le domande, praticamente, però partiamo da una cosa curiosa: avevi detto prima che don Leandro non voleva diminuire anzi voleva sempre ampliare le strutture della comunità, invece qui nonostante la realtà sia articolata è sempre rimasta contenuta la dimensione. Perché? È stata una scelta questa, sì?
Sì, è stata una scelta, infatti uno dei motivi per cui mi sono staccato da Famiglia Nuova è stato proprio perché per don Leandro, essendo molto generoso, era importante cercare di accogliere tutti, di salvare, ecco usiamo proprio questo termine, di salvare il più possibile e quindi apriva comunità a ripetizione perché aveva come modello di riferimento San Patrignano, che era nata nello stesso periodo di Famiglia Nuova. Si tratta di numeri esorbitanti, mentre la scelta che avevo sempre condiviso era quella di fare tante piccole comunità dove era più facile ovviamente condividere, seguire, e in definitiva vivere insieme. Ma don Leandro ogni anno, potendo disporre di soldi sia personali sia di proventi che arrivavano attraverso i libri che scriveva, in un modo o nell’altro apriva una nuova struttura. Monte Oliveto era stata la seconda poi c’è stata Graffignana poi c’è stata la Gandina a Badia Pavese e dopo la quarta gli ho detto: “Leandro, adesso basta”, perché oltre alla struttura erano necessari gli operatori e allora don Leandro li prendeva dagli utenti più anziani facendoli diventare responsabili, ma poi succedeva...
Di tutto.
Di tutto, sì. Allora, a quel punto dopo la quarta comunità, don Leandro ha comunque continuato e ne ha aperta una quinta, mentre Monte Oliveto veniva considerata da una parte un po’ come una “colonia penale” in quanto avendo tutti i lavori agricoli da svolgere, bisognava rispettare gli orari e le consegne. D’altra parte, abbiamo cercato fin da subito a offrire la possibilità di reinserimento e a quel punto mi ero stancato di dover continuamente giustificare quell’impostazione anche perché don Leandro continuava ad aprire comunità una dopo l’altra. È lì che sono entrato nell'ottica di volere una comunità che facesse sua la sintesi che è non possibile aiutare o salvare il mondo intero ma cercare di fare bene quel poco che si può fare e viverci dentro insieme, condividendo gli stessi valori.
Cos’è cambiato in questi trent’anni a parte quello che é già stato espresso, soprattutto l'aspetto pionieristico personale e legislativo. Cos’è che non è cambiato e che è rimasto lo stesso in tutti questi anni?
Io direi lo spirito: praticamente cerco di vivere di trasmettere agli altri ancora lo spirito di partenza cioè quello della solidarietà, della condivisione, della fratellanza, dell'aiuto agli ultimi cioè il vivere evangelico anche se non ho mai voluto avere una comunità che fosse confessionale, ma per una scelta libera di ognuno. Ecco, questo valore del rispetto per la persona è la condizione per essere qui altrimenti non ci sarebbero le basi di condivisione cioè rispetto e apertura verso altri. Questo è un po’ più difficile da realizzare.
Però lo spirito è rimasto...
Sì, è rimasto, certo. È un ideale in cui credo fino in fondo.
C’é anche l’apertura al territorio: ne parlavi prima riguardo agli orti del Pellicano, ma anche tutta la comunità è sempre aperta.
È ancora parte della mia esperienza personale, perché sia da prete che da insegnante, ho conosciuto a fondo il territorio, e anche una volta ottenuta la dispensa, che mi avrebbe tolto la parrocchia e l’insegnamento, ho continuato a lavorarci. È successo praticamente che il comune di Lodi, in particolare Luisa Picech che era la responsabile dei servizi sociali, aveva avuto modo di conoscermi e avendo visto come avevo lavorato realizzando i due mesi della colonia estiva Caccialanza. Per coincidenza, alla fine di quel periodo c’era stato subbuglio a livello del territorio di Lodi perché c’erano stati problemi con il centro educativo per disabili di Villa Igea ed era nata l’esigenza di un coordinatore. Vista l’esperienza alla colonia Caccialanza, avevano pensato a me, ma al di là del mio percorso del liceo e della facoltà teologica a Milano, non avevo altro titolo per poter accedere. Ma la situazione era problematica e mi suggerirono di partecipare a un concorso come collaboratore domestico.
Davvero?
Sì, era l’unica possibilità che avevo di diventare dipendente del comune di Lodi. Il concorso che ho vinto e che praticamente mi ha permesso di lavorare per il comune di Lodi con il distacco come coordinatore mi ha permesso di conoscere il comune di Lodi e quando sono andato in pensione nel 1991 e ho acquisito la comunità già ero conosciuto, per cui si è aperto tutto un canale di richieste d’aiuto per le situazioni d’emergenza del territorio lodigiano. Un canale aperto ancora oggi.
Quali sono le sofferenze e i bisogni che sono cambiati in questi trent’anni? Pensiamo alla ludopatia, per esempio, che era una cosa che trent’anni fa non c’era o per lo meno non era stata evidenziata e adesso fa parte di tutta la gamma di sofferenze?
Sì, ecco, direi che oltre la ludopatia, ho anche notato questo: direi persone con problemi di alcolismo che adesso sono riconosciuti, ma che soprattutto in questi ultimi anni sono diventati evidenti. In questo momento, il numero tra gli ospiti è non meno di quattro, cinque persone tra i sessanta ed i settant’anni che hanno avuto un passato di abuso di alcol, che non sono più di nessuno, che non hanno l’età per la casa di riposo e che non hanno una soluzione abitativa, anche perché se non sono riconosciuti come alcolisti non hanno diritto a nessun tipo supporto. Ecco, vedo questa situazione che prima non c’era di persone che sono qui in alternativa alla casa di riposo e che in fondo condividono con gli altri una vita sociale ma che praticamente non riescono più a dare se non un minimo di aiuto alla condivisione della comunità: preparare la tavola o fare le pulizie. Si tratta di categorie che è impossibile reintegrare in un’attività occupazionale e questa è una realtà nuova con cui dobbiamo confrontarci, solo che a livello di organizzazione in Lombardia non c’è ancora niente di...
Organico.
Organico, sì. Per cui i nostri interventi, a questo livello, sono tutti a titolo gratuito.
Diciamo anche due cose sull’esperienza del Pellicano rosso e del Pellicano nero che sono stati quegli “esperimenti” internazionali del Pellicano.
Il Pellicano nero praticamente è nato con il fatto che era arrivato Lalo Fontanella, che era stato prete missionario in Costa d’Avorio, e aveva anche sposato Virginia della Costa d’Avorio, e abbiamo parlato di un progetto, di far qualcosa in Africa e abbiamo costituito Il Pellicano nero. L’obbiettivo era quello praticamente di entrare nel villaggio d’origine di Virginia e cercare di aiutare le persone a diventare indipendenti e dato che c’era del terreno disponibile abbiamo creato una piantagione di caucciù. La scelta del caucciù era collegata al fatto che in quella zona non c’erano ancora attività di quel genere, per cui è stata una novità per la gente locale e poi perché il caucciù, essendo una pianta con una resa notevole permetteva alla gente di avere un’entrata più o meno fissa. Ecco, questo è stato il motivo del progetto a cui si è poi unita una ONG norvegese che ha portato avanti dei corsi professionali per alcuni anni. Abbiamo realizzato anche dei corsi scolastici, e abbiamo investito molto, ma ci siamo dovuti scontrare con mille difficoltà, non ultima la guerra civile, e oggi è rimasto soltanto una piccola parte della coltivazione del caucciù. Mentre Il Pellicano rosso è nato dall’idea di un nostro amico volontario, Sergio Gandolfi, che era molto coinvolto nell’accoglienza di bambini bielorussi durante l’estate e così ogni anno facciamo un viaggio nei villaggi convivendo con loro e poi loro vengono da noi. Abbiamo cercato di realizzare dei progetti verso le scuole e gli asili e le strutture per disabilità perché su quel fronte lo stato non fa niente.
C’è un momento bello o un rimpianto che ricordi in particolare in questi trent’anni?
È difficile dire un momento bello... Direi tanti momenti belli, ma soprattutto ogni volta che qualcuno riesce a riprendere in mano la sua vita grazie al nostro aiuto. Perché ci sono state difficoltà e fatiche, ma per fortuna ho parecchi amici con cui condividere non solo gli ideali ma anche i momenti di pausa e queste sono praticamente le cose belle. Quando penso alla comunità non la penso come struttura ma come un insieme di persone e penso che la fortuna sia di avere vicino delle persone fantastiche, così come siete anche voi!
Chiudiamo con lo slogan che abbiamo scelto: la terra c’è stata prima, c’è adesso e ci sarà anche in futuro, quindi il futuro ha le mani sporche di terra.
Noi siamo partiti proprio dalla terra, anche se poi per anni abbiamo continuato a chiederci cosa potevamo farci. Alla fine abbiamo capito che è una parte fondamentale della nostra storia e che nella terra ci dobbiamo mettere le mani, e da lì si è aperto tutto un mondo nuovo sul quale ci stiamo ancora muovendo con grande gioia perché ritornare alle nostre origini, di fatto, è stato molto bello. Uno dei nostri leitmotiv è stato terra, pane e pace, ed è per quello che la terra sarà ancora nel nostro futuro. Sono questi gli ideali su cui ci muoviamo, e in cui credo. Ecco, sono questi i nostri primi trent’anni.
Bellissima intervista!
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